Si trovava al San Raffaele, uno
dei più famosi ospedali di Milano, una specie di piccola città con più di mille
posti letto, sede dell’EAS, il Dipartimento di Emergenza, Urgenza e
Accettazione di Alta Specialità.
I carabinieri del comando della
stazione di Cadorna avevano deciso di ricoverarla lì dopo aver avuto la
conferma che non risultavano donne rispondenti alla sua descrizione per le
quali era stata segnalata la scomparsa o ricercate per qualche reato.
Prima le avevano preso le
impronte digitali e le avevano scattato una fotografia, nel caso in cui si
fosse reso necessario trasmetterla ai giornali, ma avevano ritenuto che fosse
necessario sottoporla ad analisi cliniche con una certa urgenza. La scelta
dell’ospedale non era stata casuale. La donna che aveva chiesto il loro aiuto
portava indumenti chiaramente costosi, quindi di certo non era né una barbona
né una persona indigente, ed era abbastanza sicuro che chi poteva permettersi
capi d’abbigliamento lussuosi sarebbe poi risultata titolare di assicurazione
medica.
Inoltre, il San Raffaele
disponeva di una struttura all’avanguardia nella cura delle malattie
psichiatriche. L’avevano lasciata al Pronto Soccorso, dove un medico internista
le aveva fatto qualche domanda, le stesse che le avevano posto in precedenza al
comando dei carabinieri: qual’ è l’ultima cosa che ricorda ? Dove si trovava ?
Cosa aveva fatto ? Ricordava di aver bevuto o di aver assunto qualche sostanza
stupefacente ? Non riusciva proprio a ricordare niente di sé ?
Lei aveva risposto a tutte le
domande a parte l’ultima, la più importante.
Poi il
medico aveva cominciato la visita. Lei era angosciata all’idea che la facessero
spogliare e scoprissero i lividi sul corpo, ma in ogni caso non ricordava nulla
neanche di quello. Le controllò le pupille, che reagirono normalmente alla
luce. Anche il battito cardiaco e la pressione sanguigna erano nella norma. Lei
aveva dovuto urinare in un contenitore che poi era stato mandato al
laboratorio. Infine, il medico le controllò delicatamente la testa alla ricerca
di qualche evidente trauma cranico. Niente. Dopo questi primi controlli,
l’internista si era messo in contatto con il proprio responsabile, che si era
presentata come la dottoressa Mara Scotti. Di mezza età, dall’aria molto
professionale nel suo camice immacolato, la sottopose agli stessi controlli
dell’internista e ordinò una lunga serie di analisi del sangue.
“ Che tipo di analisi state
facendo ? Cosa state cercando ? ” chiese alla dottoressa.
La donna le sorrise pazientemente
e rispose : “ Non deve preoccuparsi e deve cercare di restare tranquilla. Lo
scopo di queste analisi è quello di eliminare varie cause fisiche della sua
amnesia”.
“ Cause fisiche ? Che tipo di
cause fisiche ? ” domandò ancora.
“ Beh, tanto per cominciare
droghe, alcool e malattie veneree. In seguito, se gli esiti saranno negativi,
faremo altri esami per verificare la presenza di lesioni cerebrali.”
“ Pensa che io abbia una malattia
venerea ? ” chiese lei un po’ irritata.
“ Non lo possiamo ancora
escludere. Ma queste analisi ci serviranno anche per controllare il suo
metabolismo, per poter eliminare scompensi chimici, carenze vitaminiche,
problemi di tiroide, reni e fegato,” spiegò la dottoressa.
“ Quando avrete i risultati ? ”
“ Dovremo attendere un paio
d’ore. Nel frattempo la sottoporremo ad un elettroencefalogramma”.
“ A cosa serve ? ” insistè lei.
“ E’ un tracciato che registra le
onde cerebrali. E’ molto utile per la
ricerca di affezioni come l’epilessia, i tumori cerebrali e altre lesioni.”
“ E’ un esame doloroso ? ”
“ Assolutamente no. Le metterò
semplicemente degli elettrodi sul cuoio capelluto”.
“ Crede che io sia una drogata o
un’alcolizzata ? ”.
“ Io non credo niente. Perché non
si rilassa mentre aspettiamo l’esito degli esami del sangue ? ”.
Il tono della risposta non era né
spazientito né minaccioso. Quella donna trasudava serenità. “ Più tardi,”
continuò la dottoressa, “ chiamerò il dottor Zannini per una TAC ”.
Il risultato
dell’elettroencefalogramma evidenziò una normalissima condizione cerebrale. Lei
si sentì sollevata. Certo, potendo scegliere era meglio una malattia venerea
che un tumore al cervello, riflettè ironicamente.
Il dottor Zannini era un
neurologo. Prima che scendesse dal suo reparto per visitare la donna, era già
stato informato che le analisi del sangue non avevano rilevato alcun disturbo e
nessuna infezione che potesse aver provocato un danno cerebrale.
Dimostrava circa sessant’anni,
aveva un’aria paterna e un sorriso dolce, e si rivolse alla donna con molta
cordialità.
“ Buongiorno, sono il dottor
Zannini ”, la salutò mentre prendeva dalla scrivania della collega la cartella
clinica. “ Allora, come si sente ? Mi dicono che oggi non è molto in forma, è
vero? ”.
Lei sorrise.
“ Molto bene. Ha un bel sorriso. Ora diamo
un’occhiata a questi splendidi occhi”. Le osservò le pupille e le girò la testa
delicatamente, prima da una parte e poi dall’altra.
“ Ora osservi il mio dito senza
muovere la testa. Si ricorda come mi chiamo ? ”.
“ Zannini ”, rispose lei seguendo
con gli occhi il dito del medico. Lui le
toccò la testa e il collo.
“ Benissimo, molto bene. Concordo
con il giudizio dei miei colleghi, non sembra che ci siano danni fisici. Non
ricorda di essere caduta e di essersi fatta male alla testa ? ”
“ No… cioè, non lo so. Non me lo
ricordo. Però la testa non mi fa male”.
Il medico si sedette accanto a
lei e la guardò con simpatia.
“ Mi racconti tutto quello che
ricorda,” le chiese con gentilezza.
Lei sospirò stancamente. Le
avevano già fatto quella domanda. Però il dottor Zannini poteva aiutarla
davvero ….
“ Non mi ricordo chi sono. Non so
come mi chiamo. Stamattina ero a Stresa, stavo andando in farmacia. Questo lo
so …. ne sono sicura. All’improvviso mi sono trovata davanti alla vetrina della
libreria e mi sono resa conto che non sapevo più chi ero. Mi sono guardata
intorno sperando che qualcuno mi salutasse, ma nessuna delle persone che
passavano mi ha fatto capire di conoscermi. Non avevo la borsa, avevo solo…
avevo questi vestiti che indosso. E qualche soldo in tasca, non molto. Non
sapevo cosa fare. Ho camminato per un po’, mi sono seduta su una panchina
davanti al lago, poi sono andata in stazione e ho preso il treno per Milano ”.
“ Perché Milano ? ” chiese lui.
“ Non lo so. Era il primo treno
in arrivo. Non so perché ho deciso di venire qui ”.
“ Va bene. E cosa ha fatto quando
è arrivata a Milano ? ”
“ Ho preso un taxi e sono andata
in centro. Ho camminato molto. Poi ho mangiato qualcosa in un bar. E alla fine
sono andata dai carabinieri di Cadorna. Loro mi hanno portata qui ”.
“ Si ricorda il mio nome ? ”
chiese lui un’altra volta.
“ Zannini,” rispose lei, “ perché
continua a chiedermelo ? ”
“ Tra un attimo glielo spiego.
Perché non è andata dai carabinieri di Stresa quando si è resa conto di aver
perso la memoria ? ”
“ Non lo so. Ero molto
spaventata. Anzi, peggio, ero praticamente immobilizzata dal panico. Non
pensavo con molta lucidità ”. Con uno sforzo ricacciò nei meandri della sua
mente l’immagine della camicia sporca di sangue e dei soldi.
“ Quindi ricorda tutto quello che
ha fatto oggi ? ”
“ Assolutamente
sì, mi ricordo tutto”.
“ E sa chi è il nostro Presidente
della Repubblica ? ”
“ Napolitano. Mi piaceva di più
Ciampi ”.
“ Qual’ è il mio nome ? ”
“ Zannini. Ora vuole spiegarmi ?
”
“Ancora un attimo di pazienza. Si
alzi un momento. Tenga gli occhi chiusi e rimanga in equilibrio sulla gamba
sinistra. Bene. Ora sulla destra. Perfetto. Apra pure gli occhi e si rimetta
comoda”.
Mentre lei rimaneva in equilibrio
su una sola gamba pensando di essere un fenicottero, la dottoressa Scotti era
tornata per annunciare che l’apparecchiatura per la TAC era pronta e si era
nuovamente allontanata.
Il dottor Zannini le tese una
mano per aiutarla ad alzarsi dalla sedia.
“ Venga,” le sorrise, “ l’accompagno
in radiologia. Non deve temere nulla. Sono qui per aiutarla”.
“ Lo so,” rispose lei, “ la
ringrazio”.
“ A proposito, come mi chiamo ? ”
chiese ancora lui.
“ Zannini ”, rispose lei, e per
la prima volta da ore le venne voglia di ridere.
Salirono insieme nel reparto di
neuroradiologia. Entrarono nel laboratorio, e in fondo alla sala lei vide una
grande macchina con una strana apertura. Sembrava una galleria.
“ Ora si sdrai su questa tavola e
si rilassi. Non sentirà male,” le disse il tecnico.
“ Che cosa succederà ? ” chiese
lei un po’ allarmata.
“ La manderemo nello spazio per
pochi minuti. Potrebbe anche piacerle”. Era stato il dottor Zannini a
risponderle.
“ Questa macchina mi fa paura.
Non c’è un altro modo ? ” . Lei ora era davvero agitata.
Il dottor Zannini le prese la
mano e le accarezzò piano il dorso parlandole con dolcezza: “ Mi guardi negli
occhi e mi ascolti. Io non permetterò che le accada niente di male. Si sdrai
tranquilla, e io le prometto che tra
dieci minuti sarà tutto finito e non le sarà successo niente. Va bene ? Deve
solo sdraiarsi, chiudere gli occhi e restare assolutamente ferma. Potrebbe
anche essere così rilassata da addormentarsi. Si fidi di me. Ci vediamo tra
pochissimo”.
Lei ubbidì, e sentì il buio
avvolgerla come una soffice nuvola. La macchina emise un sommesso ronzio mentre
il suo corpo immobile entrava nel tunnel. Si concentrò sul rimanere ferma
tenendo gli occhi chiusi. Stai tranquilla, si disse, non aprire gli occhi e non
avere paura. Va tutto bene. Va tutto bene. Sei al sicuro. Sono solo pochi
minuti.
Le sembrava
di galleggiare. Lasciati andare, pensò, lascia che ti aiutino a scoprire chi
sei. Il ronzio della macchina era quasi piacevole, come quando da bambina hai
paura di addormentarti da sola ma puoi sentire i rumori della televisione che i
tuoi genitori stanno guardando in salotto, senti le loro risate lontane e ti
senti al sicuro perché loro sono lì, e non permetteranno ai mostri di uscire
dall’armadio.
La voce del dottor Zannini la
scosse dal torpore.
“ E’ stata bravissima. Ha visto ?
Non è successo niente di brutto”.
Lei si mise seduta, confusa e
intontita. “ Forse mi sono addormentata,” disse.
“ Sicuramente ne avrebbe un gran
bisogno. La sua giornata è stata sicuramente stancante … e poi, sa, il sonno
rigenera ed è una fantastica terapia. Facciamo solo un ultimo sforzo”.
Lei si alzò e tornarono insieme
nella prima stanza in cui era stata visitata.
“ Le faccio portare qualcosa da
mangiare dall’infermiera e tra poco tornerò da lei con qualche notizia”. Il
dottor Zannini uscì. Rimase sola per pochi minuti. Un’infermiera
incredibilmente robusta entrò con un vassoio sul quale erano appoggiati due
tramezzini e un bicchiere d’acqua.
“ Una cenetta leggera, mia cara,
e poi le darò una mano a svestirsi e a fare un bel bagno rilassante”.
Lei mangiò lentamente i
tramezzini pensando a cosa sarebbe successo quando l’infermiera l’avesse vista
nuda. Forse avrebbero chiamato ancora i carabinieri. O forse l’avrebbero
obbligata a sottoporsi a umilianti ispezioni intime per stabilire se fosse
stata violentata. No, pensò, le dirò che non voglio essere aiutata e nessuno
vedrà niente. Andrà tutto bene. Ho già perso la memoria, posso anche
permettermi una piccola scena isterica
per farmi il bagno da sola.
Il dottor Zannini tornò dopo una
quarantina di minuti.
“ I risultati della TAC sono
normali,” le annunciò come se le stesse facendo un bel regalo.
“ E quindi ?” chiese lei, “ cosa
succede adesso ? ”
“Adesso la lascio andare a
riposare. L’infermiera si occuperà di lei. Domani mattina, quando si sveglierà,
io mi siederò accanto al suo letto, berremo insieme una buona spremuta
d’arancia e parleremo. Decideremo insieme. Stia tranquilla, quando si sveglierà
io sarò lì. Dorma bene. Buonanotte. E sogni d’oro”.
L’infermiera l’accompagnò in una
piccola stanza privata nel reparto di psichiatria.
La camera era piccola ma a lei
sembrò un’oasi di pace. Le pareti erano dipinte in giallo molto chiaro, le
lenzuola e la federa del cuscino erano di un bianco immacolato.
Sul letto singolo, anche una
leggera trapunta di un giallo più vivace. Sopra un piccolo comodino un’abat –
jour e una bottiglia d’acqua con bicchieri. Sia la bottiglia che i bicchieri
erano di plastica. Forse hanno paura che qualcuno possa ferirsi
volontariamente, pensò. Aveva anche un
suo bagno personale. Non c’era una vasca, quindi l’infermiera, con suo grande
sollievo, non insistette per aiutarla a farsi la doccia. Sopra il piccolo
lavandino trovò una confezione di docciaschiuma alla lavanda, uno shampoo
neutro e tre piccole saponette incartate con il nome dell’ospedale. Un tubetto
di dentifricio monodose, uno spazzolino da denti e una cuffia per i capelli
erano appoggiati di fianco ad un altro bicchiere di plastica. Gli asciugamani
erano bianchi, grandi e morbidi. Profumavano di buono. C’era anche un piccolo
asciugacapelli. Sembrava quasi una camera d’albergo, se non fosse stato per le
grate alle finestre, parzialmente nascoste da tende di cotone bianco.
L’infermiera aspettò con pazienza che lei finisse di lavarsi, di asciugarsi i
capelli e di infilarsi il camicione da notte che la copriva dal collo ai piedi.
Prima di uscire dal bagno, lei nascose il reggiseno con la chiave dentro la
trousse di cosmetici che aveva acquistato quel giorno e lavò le mutandine con
la saponetta. Non perse tempo ad osservarsi nello specchio di plastica. Non
aveva voglia di parlare con quella sconosciuta ricoperta di ematomi che la
fissava sgomenta e stravolta di stanchezza. Quando fu pronta, vide che
l’infermiera le aveva aperto il letto, come una mamma che aspettasse di
rimboccare le coperte ad un bimbo, e le aveva appeso ordinatamente i vestiti
nel piccolo armadio. Una vestaglia dell’ospedale era distesa ai piedi del
letto. “ Venga, cara, ” le disse la donna, “ l’aiuto a distendersi. Desidera
qualcosa per dormire ? ” Oh, sì, avrebbe voluto rispondere, qualcosa che non mi
faccia svegliare mai più o che mi riporti alla mia vita. Invece le sorrise. “
No, grazie, credo che crollerò appena appoggerò la testa sul cuscino”.
Si mise a letto. Le sembrava di
essere arrivata nel posto più morbido e sicuro mai conosciuto.
L’infermiera non aveva ancora
spento la luce e chiuso la porta, ma lei aveva già abbracciato il guanciale
scivolando in un sonno profondissimo.
La sua mente non voleva più
pensare.
Solo dormire, dormire.
Il dottor Zannini mantenne la
promessa. La mattina dopo, quando lei si svegliò, il medico era seduto sulla
poltroncina accanto al suo letto, immerso nella lettura.
“ Buongiorno. Ha riposato bene ?
” si informò con un sorriso.
“ Che ore sono ? ” chiese lei con
voce rauca. Si sentiva la bocca impastata.
“ Sono le dieci del mattino. Ha
dormito per circa nove ore. Questo è positivo. Sa dove si trova ? ”
“ In ospedale”. Cercò di
svegliarsi completamente e di mettere a fuoco i pensieri.
“ Mi ricordo anche perché sono
qui. Non so chi sono”. Il tono della sua voce era desolato.
“ Non ha nessun ricordo nuovo ?
Ha sognato qualcosa ? ”
“ Non ricordo nessun sogno. E non
mi ricordo neanche niente di nuovo. Solo quello che è successo ieri ”.
“ Il mio nome però lo ricorda
ancora, vero ? ”
“ Sì, dottor Zannini. Questo me
lo ricordo. Ma lei non mi ha ancora spiegato perché continua a chiedermelo”.
“ Ora si alzi con calma e si
vesta. Poi le farò portare la colazione e dopo aver mangiato l’infermiera
l’accompagnerà nel mio studio. Allora parleremo. Cosa desidera per colazione ?
” chiese lui.
“ Ehm… un tè, credo. Sì, mi
piacerebbe bere un tè al limone. Nient’altro. Non ho fame”.
“ Va bene. Faccia con calma. Ci
vediamo tra un po”. Si alzò ed uscì dalla camera con il libro sotto il braccio.
Lei andò in bagno. Si lavò a
pezzi e si truccò pochissimo. Il suo viso sconosciuto continuava a guardarla
dallo specchio senza dare risposte. Non aveva voglia di fare la doccia. Quando
rientrò nella stanza, sul comodino c’era una tazza di tè fumante e i suoi
vestiti erano appoggiati sul letto. Si
sedette per bere il tè. Prima di togliersi la camicia da notte dell’ospedale
andò alla porta per chiudersi dentro a chiave. La chiave non c’era. Dannazione.
Prese i vestiti dal letto e andò a vestirsi in bagno, evitando accuratamente di
osservare il suo corpo tumefatto. Appena fu pronta uscì dalla camera alla
ricerca dell’infermiera. Forse oggi sarebbe stata una giornata stupenda. Forse
avrebbe ritrovato la memoria. Forse entro sera o anche prima avrebbe saputo chi
era. Impedì alla sua mente di fermarsi sul ricordo della camicia sporca di
sangue.
Dietro il lungo banco una giovane
infermiera la stava aspettando.
“ Buongiorno, ” la salutò, “
l’accompagno nello studio del dottor Zannini”.
Percorsero il corridoio e salirono
al quarto piano con l’ascensore. L’infermiera bussò alla porta e andò via. Lei
entrò. Il medico era seduto dietro alla sua scrivania, intento alla battitura
di qualcosa al computer. Le pareti dello studio erano scaffalate fin quasi al
soffitto e c’erano libri dappertutto. Su un piccolo tavolino di legno rotondo,
tra due poltrone, una macchinetta per il caffè americano si divideva il poco
spazio disponibile con volti di bimbi sorridenti dentro cornici di plastica
colorata. I suoi nipotini, probabilmente,
pensò lei. Non vide foto di donne, forse il dottore era vedovo oppure
quei bei bambini erano piccoli pazienti ai quali lui aveva salvato la vita.
Forse quei bambini avevano dimenticato chi erano al parco giochi, nel recinto
di sabbia o su un’altalena, e lui li aveva riportati alle loro vite. Alle loro
mamme e ai loro animali di peluche. Dio,
pensò, fai che riporti anche me da
qualche parte. Si sedette.
“ Dottore, ora cosa succede ? ”
“ In realtà, ancora non lo so”.
Lei sorrise. Era contenta che lui non cercasse di confortarla a tutti i costi.
“Adesso mi spiega perché continua a chiedermi se ricordo il suo nome ? ”
“ Stavo controllando un sintomo.
Volevo capire se lei soffre della sindrome di Korsakoff ”, rispose il medico.
“ La sindrome di cosa ? ”
“ Di Korsakoff. E’ una sindrome
amnestica. E’ caratterizzata da alterazioni della coscienza, dalla
compromissione della memoria di fissazione e da confabulazione. Poiché lei non
ricorda niente di quello che è successo un attimo prima…. confabula”. Lo disse
sorridendo.
“ Confabulazione… cosa significa
esattamente ? ”
“ Significa, per esempio, che io
le dico il mio nome e dopo cinque minuti lei l’ha già dimenticato. Allora risponde
inventandosi un nome a caso ”.
“ E perché inventerei ? ”
“ Perché normalmente chi soffre
di amnesia non vuole che gli altri se ne accorgano. Quindi cercano di farsi
dare le risposte giuste con questo, diciamo… stratagemma ”.
“ Dà l’impressione di essere
complicato”.
“ Decisamente. Ma anche perdere
la propria identità non è la cosa più semplice del mondo”. Le sorrise ancora.
“ Quindi, se non ho mai
dimenticato il suo nome non soffro di questa sindrome, giusto ? ”
“ Sì, anche perché lei non ha
manifestato alcuna convinzione delirante o persecutoria, e inoltre le sue
analisi hanno escluso l’alcolismo”.
“ Se non ho questa sindrome, cosa
ci rimane ? ”
“ Beh, non potrei metterci la
mano sul fuoco ma faccio questo lavoro da trentacinque anni…. Credo che soffra
di una sindrome acuta di origine non psicopatica ”.
“ Potrebbe farmelo capire in modo
un po’ più chiaro ? ”
“ Credo che la sua amnesia sia
stata provocata da un trauma psicologico ”.
“ Significa che sono impazzita ?
”
“ No, non ho detto questo. Vede,
ogni essere umano è sottoposto normalmente a stress. Lo stress provoca ansia, e
tutti hanno un limite di tolleranza all’ansia oltre il quale scatta un
meccanismo di difesa. Per alcune persone, questa difesa si traduce in una
perdita improvvisa della memoria. Quando lo stress è troppo, le persone non lo
possono sopportare e scelgono di evadere, sia mentalmente che fisicamente. Si
chiama stato di fuga ”.
“ Ma se fosse così, ogni
casalinga frustrata dovrebbe essere in fuga ”.
“ Non necessariamente. L’isteria
ha forme diverse. Qualcuno imbraccia un fucile e fa una strage in una scuola,
altri picchiano la moglie o i figli, altri ancora si creano una vita parallela
cominciando, che so, una relazione extra-coniugale. Le reazioni sono diverse ”.
Lei chiuse gli occhi pensando
alla camicia insanguinata e ai soldi.
Rapina con omicidio ? pensò
cercando di trattenere le lacrime.
“ Quindi sono un’isterica,”
mormorò piano.
“ Non mi fraintenda. Essere
isterici o soffrire di amnesia isterica sono due cose molto diverse. Io credo
che il suo sia un caso di amnesia isterica. Sono convinto che la sua mente abbia
messo in moto un meccanismo di autodifesa, allo scopo di dimenticare qualcosa
di specifico, un evento traumatico, una grande paura o rabbia, o anche qualcosa
che la umilia profondamente o la fa sentire in colpa ” .
“ E si può fare qualcosa ? ”
chiese lei.
“ Io penso che lei dovrebbe
vedere uno psichiatra. Vede, potremmo anche fare altri esami. Potremmo provare
con una lettura di risonanza magnetica, oppure con una tomografia che esamina
il metabolismo del cervello, o anche con una mappatura dell’attività elettrica
cerebrale. E per non farci mancare nulla, potrei anche sottoporla ad un esame
spinale alla ricerca di eventuali infezioni al sistema nervoso. Ma
personalmente sono convinto che non troveremo nulla di anormale ”.
“ Quindi mi manda dallo psichiatra
? ”
“ Sono certo che nel suo caso sia
la strada migliore ”.
“ Ma cosa potrei dirgli ? Se non
ricordo niente, cosa può fare uno psichiatra ? ”
“ Le farebbe fare dei test.
Psicologici e per la memoria. Ma voglio dirle una cosa importante. Se veramente
il suo è un caso di fuga isterica, potrebbe anche regredire all’improvviso.
Spesso durano pochi giorni dalla crisi acuta. Credo che nessuno di questi casi
sia durato più di sei mesi ”.
“ Sei mesi ! ” esclamò lei
sgomenta, “ ma è un’eternità ! ”
“ Non credo che sia saggio
convincersi subito dell’ipotesi più pessimista. E comunque, non ha pensato al
fatto che probabilmente qualcuno la sta cercando ? Lei si è rivolta ai
carabinieri, è una sconosciuta per se stessa ma sicuramente non per molte altre
persone ”.
“ E’ vero. Forse ho una famiglia
che tiene molto a me. Ma purtroppo non ne ho la più pallida idea. Va bene,
vorrei fare questi test con lo psichiatra ”.
“ Ha preso la decisione migliore.
Mi dia un po’ di tempo per organizzare la cosa ”.
Il dottor Zannini la fece
riaccompagnare in camera e l’infermiera le procurò gentilmente qualcosa da
leggere. Lei si domandò se fosse il caso di raccontare tutto allo psichiatra.
Il sangue. I lividi. I soldi.
Sicuramente erano fatti che sostenevano l’ipotesi della fuga isterica. Ma cosa
poteva succedere ? Probabilmente avrebbero chiamato la polizia. Non era sicura
che questo tipo di informazione rientrasse in un rapporto di segretezza tra un
medico e un paziente. Quel sangue poteva essere di qualcuno che lei aveva ucciso
in preda ad un attacco di furore. L’avrebbero sicuramente denunciata.
No, meglio continuare a mentire.
Anzi, a omettere.
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