sabato 2 febbraio 2013

Capitolo 22


Cesare era riuscito a parcheggiare in via Paleocapa, un centinaio di metri prima della fermata dell’autobus per l’aeroporto di Malpensa.
“ Giulia, ti senti bene ? Pensi di riuscire a camminare fino alla stazione ?”
Lei era sfinita. Quella mattina non si sarebbe neanche alzata dal letto, ma Cesare aveva deciso che sarebbero andati a Milano a recuperare i trentamila euro che Giulia aveva preso dal loro conto corrente. Quando lui ne aveva parlato, Giulia aveva avuto bisogno di tempo per ricordare i particolari. Poi era riuscita a far emergere dalla confusione della sua mente l’immagine di un reggiseno di pizzo e di una piccola chiave filiforme. Non aveva immaginato di doverlo accompagnare, ma lui aveva insistito e Giulia non aveva l’energia necessaria per sostenere neanche una banale conversazione.
Quella mattina, Laura e Fabrizia avevano telefonato per sapere se potevano passare da casa a farle un saluto, e Cesare aveva detto ad entrambe che andavano a Milano a fare un po’ di shopping, lei era dimagrita molto e aveva bisogno di rinnovare il guardaroba, inoltre sperava che fare acquisti l’avrebbe messa di buon umore. Perché non passavano tra qualche giorno ? Così avrebbero potuto ammirare i nuovi abiti di Giulia. Della deviazione alla stazione di Cadorna non aveva detto nulla,  anche perché aveva preferito non raccontare neanche agli amici che lei aveva rubato trentamila euro prima di scomparire. In effetti, non era un dettaglio della vicenda di cui andare molto fieri.
“ Sono stanca. Preferisco aspettarti in macchina,” rispose, e sentì le parole pronunciate dalla sua bocca provenire da lontano, come se a parlare fosse stato un estraneo. Non voglio parlare, pensò, voglio solo abbassare il sedile e rimanere qui a dormire.
“ Devi sforzarti un po’,” insistè Cesare,                   “ camminare ti farà bene. Non puoi dormire tutto il giorno, devi ricominciare a vivere normalmente.”
E perché mai ? pensò lei. A pensarci bene, le veniva quasi da ridere. Quando aveva desiderato disperatamente uscire Cesare l’aveva tenuta praticamente segregata in casa. Quando avrebbe fatto l’impossibile per vedere gli amici Cesare l’aveva isolata da tutti. Adesso che il suo unico desiderio era rintanarsi nella sicurezza del suo letto e non parlare con nessuno, Cesare la obbligava a fare vita sociale e gite in città. Perché ? Perché non la lasciavano in pace ?
“ Forza,” disse Cesare aprendole lo sportello e aiutandola a scendere. Forse lui non voleva lasciarla sola in macchina per paura di non ritrovarla al suo ritorno. Non aveva ancora capito che sarebbe stato meglio per tutti ? Sparita. Scomparsa per sempre.
E invece no, era ancora lì, sollevata di peso dal sedile della macchina, in minigonna e top di seta come se stesse andando ad una festa, i capelli lavati quel mattino, anche se ormai non sembravano mai puliti, e il suo bellissimo marito accanto a lei che la doveva sostenere per evitare che cadesse inciampando nei suoi piedi. Arrivarono davanti alla stazione delle Ferrovie Nord e lei era già fradicia di sudore, faceva un caldo terribile, l’afa e l’umidità erano insopportabili e avrebbe voluto buttarsi nell’acqua della fontana. Ogni passo era più difficile del precedente, le sembrava che il calore le incendiasse la testa e si sentiva anche le orecchie tappate.
“ Vuoi sederti e riposare un momento ?”
Lei scosse lentamente la testa in segno di diniego. Fermarsi per qualche minuto non sarebbe servito a niente, anzi, avrebbe ritardato il ritorno a casa. Assolutamente no, pensò, sbrighiamoci in fretta, torniamo nell’aria condizionata della macchina e corriamo a tutta velocità verso il mio letto, il dondolo e le medicine. Le pastiglie. Solo grazie a loro le giornate erano sopportabili. E pensare che all’inizio aveva cercato di rifiutarle, che follia.
Cesare la guidava in mezzo a decine di persone che scendevano e salivano dai treni, tirandola come un peso morto. Arrivati al gabbiotto del Safe Box, lei si sedette sul basso muretto di pietra mentre Cesare si metteva in coda dietro una coppia di americani e un uomo di colore in giacca e cravatta. Nessuno faceva caso a lei. Se ne avesse avuto la forza, si sarebbe alzata e avrebbe seguito la folla, confondendosi al suo interno, una figura in mezzo ad altre centinaia. E questa volta era sicura che non ci sarebbe stato un seguito. Ma le ginocchia le tremavano per lo sforzo dei pochi metri percorsi e sapeva che avrebbe avuto bisogno di Cesare anche solo per rimettersi in piedi. Osservò il marito aspettare pazientemente il suo turno e dire qualcosa all’impiegato. Qualche minuto dopo erano davanti alle cassette di sicurezza, lei appoggiata al muro e Cesare e l’impiegato con le loro chiavi in mano. Poi l’impiegato li lasciò soli, e Cesare estrasse dalla cassetta la borsa di pelle nera. La posò sul tavolo e guardò dentro. Le sembrò che impallidisse. Forse aveva visto la camicia sporca di sangue. Chiuse la borsa senza dire nulla e tornò al gabbiotto per saldare i giorni di deposito. Quando ebbe finito, andarono nel bagno. La borsa, la camicia e gli altri vestiti finirono in fondo al grosso bidone della spazzatura, le banconote da cinquecento euro furono velocemente trasferite nella valigetta che Cesare aveva portato con sé. Finalmente, pensò Giulia, ora possiamo tornare a casa. Ma Cesare aveva altri programmi. Tornarono alla macchina e lei si accomodò sul morbido sedile tirando un sospiro di sollievo, e solo dopo qualche minuto di viaggio si rese conto che non stavano prendendo la direzione per l’autostrada.
“ Dove stiamo andando ?” chiese.
“ A fare qualche acquisto per te.”
“ Oh Dio, Cesare, no. Non mi sento bene. E poi, non ho bisogno di niente. Per favore, torniamo a casa subito.”
“ Hai bisogno di vestiti nuovi. Quelli che hai sono troppo larghi e non ha senso farli stringere. Non puoi continuare a indossare abiti che non sono della tua taglia. Comunque, non devi preoccuparti. Compreremo tutto nello stesso negozio e sono sicuro che ti divertirai. Ti è sempre piaciuto fare shopping nelle boutiques del centro.”
Davvero ? si chiese lei, non me lo ricordo. E comunque, chi se ne frega. Io voglio andare a casa.
Non disse più nulla, sapeva che tanto era inutile. Avrebbe fatto quello che voleva lui, avrebbero comprato quello che piaceva a lui, qualsiasi cosa pur di finire in fretta e tornare indietro. Aveva bisogno della sua pastiglia.
“ Se non ti dispiace, passiamo un attimo nello studio di una collega. Devo ritirare alcuni atti.”
Giulia non rispose.
Parcheggiò vicino al Castello Sforzesco e attraversarono la strada, lei aggrappata al braccio di Cesare per riuscire a stargli dietro, lo sguardo concentrato sulle strisce pedonali che sembravano accavallarsi una sull’altra. Lo vide salutare con la mano una figura affacciata alla finestra del primo piano nel palazzo di fronte a loro. La donna li accolse nell’atrio dello studio.
“ Cesare ! Come stai ?”
“ Benissimo, grazie. E tu, va tutto bene ?”
“ A meraviglia. Ho già preparato gli atti e sono pronta per la mia vacanza. Ti ringrazio molto per la disponibilità, comunque sono solo poche udienze.”
“ Non c’è nessun problema. A proposito, lei è mia moglie, Giulia. Giulia, lei è una collega, l’avvocato Carla Feltre.”
“ Ciao, lieta di conoscerti,” disse la donna guardandola come se avesse visto uno scarafaggio sul lucido pavimento di marmo. Giulia non rispose. Forse le sue labbra avevano accennato una specie di sorriso, ma non ne era molto sicura.
“ Carla si occupa di diritto di famiglia. Sta partendo per una crociera e mi lascia un po’ di lavoro in sospeso.”
Lei annuì, ma loro avevano cominciato ad esaminare degli incartamenti e non le prestavano più attenzione.
Ecco, parlate voi, pensò Giulia sollevata, guardandosi intorno per localizzare un posto in cui sedersi.
Quella donna non le piaceva, la faceva sentire inadeguata. Carla Feltre era perfetta ed elegante, fresca come una rosa nonostante il calore opprimente che entrava dalle finestre, i preziosi accessori intonati al tailleur di sartoria. La sua voce era squillante e decisa, con il tono del professionista affermato. Si chiese se anche nella sua vita precedente donne così sicure di loro stesse le avessero provocato la stessa spiacevole sensazione. Probabilmente no, riflettè, in fondo ero una scrittrice conosciuta e ho sposato un noto avvocato. E adesso ? Adesso non sono più niente, tutto quello che ero è precipitato da una scalinata insieme alla mia vita.
Si accorse che una donna seduta nella sala d’aspetto dello studio la stava fissando. La guardò, e la donna abbassò gli occhi continuando a sfogliare una rivista. Appena Giulia distolse lo sguardo, la donna ricominciò a fissarla.
“ Giulia, ho bisogno di qualche minuto. Ti dispiace aspettarmi qui ?”  le chiese Cesare guidandola verso una sedia. Lei si accomodò davanti alla donna che prima la stava scrutando, mentre Cesare e Carla Feltre entravano in un ufficio.
La donna la osservava di sottecchi girando le pagine della rivista. Giulia cominciò a sentirsi un po’ imbarazzata. Prese un giornale dal tavolo e se lo appoggiò sulle ginocchia.
“ Mi scusi… lei non è Giulia ? L’amica di Emanuela Sala ?”
Giulia sussultò,  sollevò il viso e la guardò stupita. La donna dimostrava circa la sua età ed era bellissima. Lunghi capelli castani, occhi scuri, abbronzata e con un sorriso meraviglioso. Annuì senza parlare.
“ Mi dispiace,” continuò la donna, “ l’ho  spaventata ?  Prima la stavo osservando …. ero sicura di averla riconosciuta …”
Giulia continuò a guardarla senza dire nulla.
“ Non si ricorda di me ? Sono Sonia. Sonia Paggi. Ci siamo conosciute in ospedale.”
“ In ospedale ?”
“ Sì… scusi ancora… mi rendo conto che non è un argomento piacevole… e poi sono passati pochi mesi. Lei non sta ancora bene, vero ?”
“ Lei conosce Emanuela ? E mi ha conosciuta in ospedale ?   Dove ?”
“ Non se lo ricorda ? Giulia, si sente bene ? Cosa le è successo ?”
“ Io .. non lo so. Sono stata male. Mio marito mi ha riportata a casa … ma non mi ricordo nulla… in ospedale dove ? Quando ?”
La donna smise di sorridere. “ Suo marito è l’uomo in compagnia dell’avvocato Feltre ?”
“ Sì.”
“ Allora mi ascolti con attenzione,” disse la donna. Il tono della voce era cambiato. Si sentiva l’urgenza.  “ Quando torna suo marito io smetterò di parlare e farò finta di non conoscerla. Credo che stia succedendo qualcosa di poco chiaro. Io lavoro con l’avvocato Clerici. Sono il ponte tra lo studio legale e l’associazione della dottoressa Sala. E per quanto ne so, lei ora dovrebbe essere molto lontana da qui, in Sudafrica, con Emanuela. Non so cosa sia successo, ma è chiaro che lei ha bisogno di aiuto. Ci siamo conosciute all’ospedale di Gallarate, quando lei ha avuto l’aborto. A gennaio. Poi ci siamo riviste nello studio di Martina. L’avvocato Clerici. Era tutto pronto, Emanuela aveva sistemato tutto …  ma lei non ricorda niente ?”
Giulia non la stava più ascoltando. L’incidente. A gennaio. Emanuela. Il Sudafrica. Cosa stava dicendo quella donna ?
“ Giulia, Giulia ! Mi ascolti !”
Ma lei stava scivolando lentamente giù dalla sedia. Vide il volto della donna sdoppiarsi, poi non vide più nulla.

“ Giulia … cara, stai meglio ?”
Lei sentì la voce di Cesare e riaprì lentamente gli occhi. Era sdraiata sul pavimento con qualcosa di morbido sotto la testa. Cosa diavolo sta succedendo, si chiese mentalmente. Dietro Cesare vide il volto di Carla Feltre, l’espressione chiaramente disgustata,  e accanto quello della donna che l’aveva così turbata. Nei suoi occhi ora c’era uno sguardo strano, come … un allarme. Sì, un allarme. Era come se cercasse di dirle qualcosa senza parlare, qualcosa di terribilmente importante.
“ Devi essere svenuta per il caldo,” continuò lui,      “ non dovevo portarti a Milano, ti sei stancata troppo. Scusami, ora torniamo a casa e potrai riposarti.”
“ Forse dovrebbe chiamare un medico,” intervenne la donna.
“ Non è necessario. Mia moglie è in convalescenza e si è affaticata troppo. Appena saremo a casa si sentirà meglio.” L’aiutò a rialzarsi e le fece bere un po’ d’acqua. Si congedò rapidamente dalla collega e raccolse la valigetta con i soldi. Mentre Cesare infilava alcune cartelline nella tasca esterna della ventiquattrore, la donna con i lunghi capelli castani le strinse un polso, mentre con l’altra mano le infilava qualcosa tra il palmo e le dita.
Istintivamente, Giulia strinse il pugno.

Le parole della donna le giravano in testa confusamente. C’era qualcosa, qualcosa che la sconosciuta aveva detto che le dava fastidio, come il rumore della goccia da un rubinetto che perde, ma non riusciva a concentrarsi. Con un ultimo, faticosissimo sforzo, infilò il bigliettino di carta tra la pelle e l’elastico delle mutandine e si lasciò cadere sul sedile della macchina.

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